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È perfettamente inutile girarci attorno.

L’Assemblea della scorsa settimana ha ripetuto l’errore.

 

L’ennesimo azzeramento della esperienza PCI-PDS-DS-PD non può essere la risposta seria da darsi a una dirigenza che non ha mai digerito, nè digerisce -ai più alti livelli-, che la leadership della coalizione di sinistra sia affidata a una persona esterna (o estranea) al DNA, bollinato, comunista.

 

Giriamoci attorno quanto vogliamo, ma il punto reale è proprio questo.

 

I Progressisti di Achille Ochetto persero nel 1994, ma l’Ulivo di Prodi vinse nel 1996; l’Ulivo di Rutelli venne sconfitto nel 2001, ma l’Unione di Prodi si affermò nel 2006…

 

Circa un decennio dopo è entrato in gioco il Movimento 5 Stelle, che ha tolto molto sangue dalle vene PD. Stessa storia.

Scenario cambiato, ma rovello sempre uguale.

 

Ad esempio, nel 2013 Italia Bene Comune di Bersani rimirò i dilettanti M5S arrivare al 25,56% e pure -in quella stessa Legislatura (XVII)- un leader non strettamente “ortodosso” come Matteo Renzi (prima avversario poi subentrato a Pierluigi) alle elezioni europee, riuscì a trascinare quel partito oltre la soglia del 40%.

Per questo lui fu cacciato anche (e soprattutto) dal “fuoco-amico”.

 

È la supponente alterigia e l’inesistente reattività alle situazioni che cambiano, ma

-ancor più- l’altezzosa divinità alle contingenze concrete, che hanno ucciso il PCI-DS-PDS-DEMOCRATICI.

 

Un errore che Silvio Berlusconi (sì proprio lui) non ha mai commesso: lasciando la strada libera a Giorgia Meloni in forza del principio che la coalizione non mette veti proprio a nessuno e chi ha un voto in più comanda.

 

Una tesi politicamente inconsistente questa, beninteso…

 

Ma è tardi per riconoscere questo stesso principio, a monte, anche a sinistra?

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